Passeggiando per le strade di Roma, varcando le porte delle chiese e visitando le sale dei molteplici musei che contraddistinguono l’offerta artistica e turistica della Città Eterna, si rischia di restare letteralmente abbagliati dalle impronte lasciate, nel corso dei secoli, dai più grandi artisti italiani dell’ultimo millennio.
Dal Medioevo al Rinascimento, dal Manierismo al Barocco fino al Neoclassicismo, Roma è progressivamente mutata, decennio dopo decennio, strettamente connessa a doppio filo con i grandi Maestri, desiderosi di lasciare un segno del proprio passaggio.
Proviamo a citarli, in rigoroso ordine cronologico, senza in nessun modo volerli piazzare in una Top10 di merito:
Nomi che, senza alcun dubbio, tutti voi conoscete. Nomi che, ne siamo certi, saprete legare facilmente ad almeno un’opera realizzata a Roma.
Siamo però convinti di potervi stupire, raccontandovi in dieci piccoli paragrafi dove si trovino i capolavori più sperduti realizzati da questi Maestri, uno per artista, per favi capire come Roma si un vero e proprio dedalo di sorprese ed angoli sconosciuti.
Lo faremo grazie all’ausilio dell’Associazione Culturale Rome Guides, che organizza visite guidate su Roma e Provincia e che, con questo articolo, ci poterà alla scoperta di queste mirabili opere d’arte, in modo da permettere a tutti voi, in futuro, di poterle ammirare dal vivo.
1 – GIOTTO – BONIFACIO VIII INDICA IL GIUBILEO – SAN GIOVANNI IN LATERANO

La Cattedrale di San Giovanni in Laterano ha rappresentato per secoli, prima che i Papi si trasferissero
in Vaticano, il cuore della Cristianità.
L’antica Loggia delle Benedizioni, prima dei rifacimenti fra il XVI e il XVII secolo, venne decorata da Giotto di Bondone, che a Roma lasciò svariati lavori oggi quasi del tutto scomparsi.
Giotto è considerato oggi il pittore che ha maggiormente rinnovato la pittura medievale in Italia e in Europa: celebre per le sue qualità prospettiche e per la sua mano fermissima (Giorgio Vasari scrisse che Giotto, per dimostrare a Papa Benedetto XI le sue capacità artistiche, dipinse con un pennello una perfetta O senza l’aiuto di alcuno strumento), Giotto lasciò a Roma numerosi capolavori, il più conosciuto dei quali è senza alcun dubbio il Trittico Stefaneschi, visibile oggi presso la Pinacoteca Vaticana.
Volendo però trattare specificamente i lavori più celati e misteriosi dei grandi artisti italiani a Roma, preferiamo soffermarci su un piccolo frammento di affresco, oggi conservato sul primo pilastro della navata destra di San Giovanni in Laterano, raffigurante uno degli episodi cardine della Chiesa medievale: l’indizione, da parte di Papa Bonifacio VIII, del primo Giubileo della storia nel 1300.
La scena, storicamente assai rilevante, risulta ambientata fra due delle colonne di porfido dell’antica Loggia delle Benedizioni, si intravede al centro Papa Bonifacio VIII con tiara sul capo e mano sollevata per benedire la folla, con un cardinale vestito di bianco alla sua sinistra ed un giovane chierico che impugna un lungo cartiglio alla sua destra.
Sul fronte della loggia si intravede lo stemma araldico della famiglia Caetani, a cui apparteneva Papa Bonifacio VIII, con due strisce ondulate azzurre su fondo dorato.
2 – BOTTICELLI – TRASFIGURAZIONE CON I SANTI GIROLAMO E AGOSTINO – GALLERIA PALLAVICINI

Quando si parla di Botticelli a Roma, la prima cosa che venga in mente a qualsiasi turista è l’apparato
decorativo delle pareti della Cappella Sistina, realizzato alla fine del XV Secolo da Sandro Botticelli
assieme ad una vera e propria equipe di artisti assai valenti, dal Perugino al Ghirlandaio, da Luca
Signorelli a Cosimo Rosselli.
La Punizione dei Ribelli stupì persino i suoi contemporanei per l’eleganza
dei dettagli architettonici antichi sullo sfondo.
Fiorentino di nascita e nell’animo, elegantissimo nelle sue allegorie e nei suoi soggetti sacri, Botticelli
ha lasciato a Roma un numero relativamente esiguo di tavole dipinte.
Per vedere una delle più celate
agli occhi dei turisti, bisogna recarsi nella Galleria Pallavicini Rospigliosi, per godere della piccola
tempera su tavola raffigurante la Trasfigurazione di Cristo, affiancata sui lati da San Girolamo e
Sant’Agostino.
A dispetto delle modeste dimensioni, l’opera mostra in pieno lo stile di Botticelli, a partire dalla sua
pennellata mistica, quasi onirica, che esalta la sua tavolozza dai colori freddi ed innaturali, tendenti
all’astrattezza.
Concentratevi sui contorni a raggiera delle figure, che fanno risaltare i personaggi sugli
sfondi semplificati ed appiattiti, quasi privi di profondità, e non stupitevi se avrete la sensazione di
essere entrati in una sorta di universo metafisico alternativo: la pittura di Botticelli si svolge in un
mondo quasi immaginario, interamente mentale, stracolmo di complessi riferimenti filosofici ed
intellettualistici, legati all’ambiente mediceo ed oggi decisamente poco decifrabili.
3 – LEONARDO DA VINCI – SAN GIROLAMO – PINACOTECA VATICANA

Il geniale Leonardo da Vinci, probabilmente la mente più sublime del Rinascimento italiano, avrà con
Roma un rapporto decisamente conflittuale.
Invitato da Giuliano de’ Medici allo scopo di tentare la bonifica delle Paludi Pontine (esperimento fallito), trascorse a Roma appena un biennio, tra il 1514 ed
il 1516, dedicandosi quasi esclusivamente a studi di ottica, di meccanica e di geometria, osservando i
suoi antagonisti artistici Michelangelo e Raffello che si sfidano a livello pittorico fra la Cappella Sistina
e gli appartamenti papali.
In due interi anni, Leonardo non ottenne nessuna commissione pubblica: questo spiega ovviamente
non solo l’astio di Leonardo verso la famiglia dei Medici (con la famosa frase “li Medici mi creorno e
destrusseno”), ma anche la scarsità di opere realizzate dal grande artista nella Città Eterna.
Per ammirare l’unica opera di Leonardo presente a Roma, è necessario entrare nella Pinacoteca Vaticana
ed ammirare uno dei quadri più misteriosi della collezione, ossia il San Girolamo.
L’opera, che è evidentemente incompleta, è una delle più enigmatiche fra quelle realizzate da
Leonardo: dipinta probabilmente a Firenze per uno sconosciuto committente, presumibilmente
attorno al 1480, arriva a Roma in circostanze misteriose, ed è citato per la prima volta nel testamento
di una pittrice del XIX secolo, la svizzera Angelica Kauffmann.
La tradizione racconta che il quadrò scomparve nuovamente dalle cronache, per essere ritrovato per caso dal cardinale Joseph Fesch diviso
in due parti: la testa era diventata il ripiano per lo sgabello di un calzolaio, mentre la parte inferiore
fungeva da coperchio per una cassetta degli attrezzi di un rigattiere romano.
Acquistato nel 1856 da Papa Pio IX per la Pinacoteca Vaticana, raffigura l’eremita San Girolamo, penitente nel deserto, nell’atto di battersi il petto con una pietra.
Se a livello anatomico la figura del santo è ben delineata, nel pieno rispetto della grande conoscenza leonardesca in materia, mancano
certamente il crocifisso a cui dovevano tendere gli occhi del santo ed il leone accucciato ai suoi piedi,
appena tracciato e mancante del livello pittorico.
Il grande segreto dell’opera è però legato alla costruzione, simile ad una chiesa, che si intravede
chiaramente sotto l’arco naturale di roccia sulla destra: un edificio ecclesiastico nel deserto non
avrebbe infatti avuto alcuna motivazione, a meno che non si trattasse di uno dei consueti segnali
enigmatici di riconoscimento che Leonardo da Vinci era solito inserire nelle sue opere, letteralmente
disseminate di questi indizi.
Se aggiungete a ciò che Leonardo, in alcune parti dell’opera, preferì spargere il colore con le proprie dita anziché col pennello, lasciando persino le proprie impronte
digitali sui pigmenti, potete ben capire perché l’opera rivesta una peculiare importanza
nell’interminabile tesoro artistico di Roma.
4 – RAFFAELLO – PROFETA ISAIA – SANT’AGOSTINO

Immaginate di essere il pittore più in voga del Rinascimento, di essere amatissimo dalla stragrande
maggioranza della popolazione di Roma, di aver appena ultimato la Stanza della Segnatura negli
appartamenti papali avendo fatto letteralmente strabuzzare gli occhi per la meravigli al Pontefice
Giulio II, di essere ammirato ed osannato da quasi tutti i contemporanei.
Bene, se lo avete immaginato, allora potete immedesimarvi in Raffaello Sanzio.
Nel 1512, quando Raffaello era senza alcun dubbio il pittore più costoso d’Italia (eccezion fatta forse
per Tiziano Vecellio, di cui parleremo fra poco), il poco lungimirante protonotaro apostolico Johan
Goritz gli commissionò un piccolo affresco da realizzarsi sul terzo pilastro sinistro della navata
maggiore della Chiesa di Sant’Agostino.
Oggi la chiesa è assai celebre anche per la Madonna del Parto di Sansovino e per la Madonna dei Pellegrini di Caravaggio, ma all’epoca era una costruzione
“relativamente” nuova, dalla facciata assai austera e dall’interno piuttosto cupo.
Raffaello dipinse un profeta Isaia particolarmente monumentale, affiancato da due piccoli puttini che
sorreggono un festone ed una targa con dedica a Sant’Anna, la patrona del committente.
Proprio la mole massiccia del Profeta lascia chiaramente intravedere le suggestioni michelangiolesche subite dal
giovane Raffaello, che aveva avuto modo di ammirare la sublime volta della Cappella Sistina affrescata
dal suo rivale artistico, Michelangelo Buonarroti.
Notate l’impressionante avambraccio destro, contraddistinto da poderose fasce muscolari, e notevole la torsione del corpo, carica di energia
trattenuta a fatica.
L’opera è celebre per una storia legata al suo pagamento. Quando infatti Raffaello pretese da Goritz il
pagamento dell’opera (assai dispendioso), il religioso rifiutò a causa dell’esosità della richiesta.
Raffaello si mise l’anima in pace, deciso a portarlo in Tribunale per vedere confermate le proprie
ragioni, ma Goritz era roso dal dubbio: avrebbe dovuto comunque pagare quella cifra così esosa?
Quale era davvero il valore dell’opera?
A quel punto, egli decise di mostrare l’affresco proprio a Michelangelo Buonarroti, convinto che la perizia del burbero artista avrebbe rinsaldato i suoi dubbi e
la propria posizione. Con sua sorpresa però il Buonarroti, osservando il profeta Isaia e notandone le
evidenti somiglianze col proprio stile, rispose: “Solo il ginocchio vale il suo prezzo”.
A quel punto, Johan Goritz chinò la testa, mise mano al sacchetto di monete e senza fiatare pagò
Raffaello.
5 – MICHELANGELO – CRISTO PORTACROCE – SANTA MARIA SOPRA MINERVA

Letteralmente dominate dalla Pietà da un lato e dal Mosè esposto a San Pietro in Vincoli, le residue
opere scultoree di Michelangelo Buonarroti a Roma passano quasi inosservate.
Il meno valorizzato fra i suoi capolavori è celato nella splendida Chiesa di Santa Maria Sopra Minerva,
quasi offuscato dalle tombe dei due Papi appartenenti alla famiglia Medici, Leone X e Clemente VII, e
dalla mirabile Cappella Carafa affrescata da Filippino Lippi.
Si tratta di una delle opere più “sfortunate” fra quelle realizzate da Michelangelo: il grande genio del
Rinascimento, infatti, era dotato di un vero e proprio talento naturale nella scelta dei blocchi di marmo
migliore, ma questa sua qualità innata questa volta non sviluppò i suoi effetti.
Il Cristo Portacroce che si vede oggi nella chiesa è difatti una seconda versione: nella prima, purtroppo per l’artista, comparve
una sgradevole venatura nera all’altezza del volto di Cristo, dettaglio che costrinse Michelangelo a
metterlo da parte.
La seconda versione del suo lavoro ebbe un’evoluzione ancor più problematica: le pressanti scadenze
contrattuali imposte all’artista indussero Michelangelo a sbozzare il marmo, realizzandone solo alcuni
dettagli principali ed “appaltando” il resto del lavoro ad un suo collaboratore, Pietro Urbano, che
lavorò in modo così grezzo da far letteralmente drizzare i capelli a Michelangelo.
Lo scultore, osservando l’opera finita, quasi arrivò a disconoscerla, non ritenendola degna dei suoi precedenti
capolavori.
Osservando l’opera con attenzione, si vedono in effetti alcuni dettagli fortemente michelangioleschi,
come la torsione del corpo e lo sguardo sdegnoso di Cristo, il quale si appoggia ad una croce ben più
piccola rispetto a quella sui venne crocifisso e tiene in mano la canna con la spugna di aceto che gli
venne porta.
Le peripezie della scultura, però, non terminarono qui: come potete vedere, infatti, l’inguine di Cristo
venne ricoperto dopo il Concilio di Trento con un drappeggio di bronzo, per quella forma di censura
che colpì il grande artista e che mostra la massima espressione nella copertura dei nudi del Giudizio
Universale, all’interno della Cappella Sistina, per mano di Daniele da Volterra, artista che per questo
si guadagnò il nomignolo di “braghettone”.
6 – TIZIANO – SALOMÈ CON LA TESTA DI BATTISTA – GALLERIA DORIA PAMPHILJ
“Ho evitato di proposito gli stili di Michelangelo e Raffaello, perché ambivo ad una distinzione superiore
rispetto a quella di un intelligente imitatore”.
Ecco cosa scriveva l’ambizioso Tiziano Vecellio, pittore dalla vita lunghissima (sicuramente oltre gli 85 anni), uno dei primissimi veri imprenditori artistici
d’Italia, non solo dotato di una personale bottega ma di una vera e propria azienda, al servizio dei
potenti del suo tempo.
Maestro assoluto del colore (al nome di Tiziano ne vennero collegati ben due, il rosso e il biondo),
Tiziano Vecellio lascia a Roma solo pochi frammenti della propria arte: quasi tutti, volendone
ammirare la maestria pittorica, si recano presso la Galleria Borghese per ammirare L’Amor sacro e
Amor Profano, opera che i banchieri Rotschild tentarono di acquistare nel 1899 per 4 milioni di lire
(basti pensare che l’intero patrimonio pittorico della Galleria Borghese era appena stato valutato tre
milioni e seicentomila lire).
Pochi, invece, entrano nella Galleria Doria Pamphilj, un autentico scrigno artistico lungo Via del Corso,
dove i quadri sono ancor oggi posti cornice su cornice, in un horror vacui tipico del XVII secolo.
Tra i
tre dipinti di Caravaggio ed il Ritratto di Papa Innocenzo X dipinto da Velazquez, la Salome con la testa
del Battista di Tiziano passa quasi inosservata: ciò è un vero peccato, poiché questa tela racconta una
mirabile storia d’amore, ancor più straordinaria pensando come essa sia legata ad un pittore che
sembrava alieno ad ogni sentimento, sempre indirizzata sulla via del guadagno monetario e della
venalità.
Si tratta di un’opera giovanile di Tiziano, che ancora adopera colori assai brillanti e modelle di grande
bellezza.
Salomè, accompagnata da un giovane servitore, tiene sul vassoio la testa del Battista,
caratterizzata da chioma e barba assai folte; osservando però con attenzione quella testa, essa sembra
assai simile alle fattezze dello stesso Tiziano da giovane, come è facilmente possibile intuire
paragonandola ai successivi ritratti ed autoritratti dell’artista.
Sommando i singoli addendi, si arriva al risultato finale. La modella, anche grazie al piccolo fiorellino
che fa capolino dal bavero della camicetta, altra non è che la splendida Violante, figlia del pittore
Palma il Vecchio, collega di Tiziano.
Quest’ultimo, profondamente innamorato di lei, decise di
dichiararsi in un modo davvero sublime, ossia affermando pittoricamente di “aver perso la testa per
lei”. Senza alcun dubbio, una delle più romantiche dichiarazioni d’amore della storia dell’arte.
7 – CARAVAGGIO – GABINETTO ALCHEMICO – VILLA LUDOVISI

Michelangelo Merisi, più conosciuto come Caravaggio, non amò mai la pittura applicata direttamente
sul muro. Non esiste pertanto occasione migliore di una visita a Roma per ammirare quella che i critici
considerano l’unica pittura su muro mai realizzata di Caravaggio.
Attenzione, però: non si tratta di un affresco, ma di un olio su muro. È possibile ammirare questo
“unicum” della carriera del pittore maledetto entrando a visitare, in specifici giorni dell’anno, Villa
Ludovisi, con la possibilità di ammirare al suo interno anche i capolavori realizzati da Guercino.
L’opera venne commissionata a Caravaggio dal suo protettore, il cardinale Francesco Maria del Monte,
desideroso di possedere un vero e proprio Gabinetto Alchemico nel quale potesse dilettarsi, al di fuori
degli impegni ufficiali, con le sue passioni: la chimica, l’ottica e l’astronomia.
Per questa ragione, Caravaggio dipinse sulla volta la cosiddetta “Triade Alchemica”, composta dai tre maggiore dei
dell’Olimpo: Giove come personificazione dell’aria e dello zolfo, Nettuno come allegoria dell’acqua e
del Mercurio, ed infine Plutone, simbolo della terra e del cloruro.
Se formalmente l’opera rappresenta una vera e propria allegoria del processo alchemico, essa è
celebre anche per due curiosità, che ben si legano al carattere irriverente e turbolento del Merisi.
La prima riguarda Cerbero, il cane infernale a tre teste, con ogni probabilità ispirato dal cane di proprietà
di Caravaggio, chiamato Cornacchia, al quale il pittore era particolarmente legato.
La seconda riguarda i genitali di Nettuno, perfettamente visibili seppur in scorcio: la tradizione racconta infatti che non solo
le tre divinità rappresenterebbero tre simbolici autoritratti dell’artista, ma anche che per la
raffigurazione degli attributi virili del Dio del mare Caravaggio abbia piazzato uno specchio sotto i
propri piedi per raffigurare i propri genitali in una sorta di simbolica esaltazione fallica di se stesso.
8 – BERNINI – SAN GIUSEPPE E GESÙ BAMBINO – PALAZZO CHIGI (ARICCIA)

Quando si nomina Gian Lorenzo Bernini, si parla del più incredibile scultore barocco d’Europa, che
disseminò Roma (e non solo) di strepitosi capolavori, da quelli giovanili della Galleria Borghese fino a
quelli della maturità, disseminati fra un gran numero di chiese e musei, e persino in vecchiaia riuscì a
manovrare il suo scalpello in modo sublime, come testimoniato dal Salvator Mundi oggi conservato in
San Sebastiano Fuori le Mura.
Come architetto, Bernini progettò una serie di opere di primissimo livello, ma non dimostrò la
medesima infallibilità evidente nella sua arte scultorea.
Il clamoroso fallimento dei Campanili della Basilica di San Pietro, mai innalzati per problemi di statica, o i piccoli campanili eretti sul Pantheon,
subito derisi dai romani che li soprannominarono “orecchie d’asino” e che vennero distrutti circa due
secoli dopo, rappresentano esempi lampanti di una certa approssimazione artistica in campo
architettonico.
Ma cosa si può dire del Bernini pittore?
Innegabilmente, Gian Lorenzo Bernini amava dipingere, sebbene spesso questa attività fosse da lui
svolta esclusivamente per personale diletto. Non si tratta, però, della dote più rinomata del grande
artista, che raramente si dedicò ad opere pittoriche di pubblico dominio.
Recandosi però nell’ambito dei Castelli Romani, pochi chilometri a Sud di Roma, ed entrando in quella
meraviglia architettonica barocca che è Palazzo Chigi ad Ariccia, sarà possibile ammirare il più segreto
e sconosciuto dei lavori di Bernini. Si tratta di un’opera suggestiva, emozionalmente molto intensa,
tanto che quando Papa Francesco la vide per la prima volta affermò: “È pieno di tenerezza!”.
Sul muro di sinistra della piccola cappella di palazzo, Bernini realizzò la sua unica opera pittorica su
muro, una sanguigna raffigurante un anziano San Giuseppe che tiene con delicatezza in braccio il
Bambino Gesù, i cui visi teneramente si sfiorano. Non ci sono dubbi sulla paternità dell’opera, essendo
stata firmata dal grande artista (unica opera pittorica ad essere stata firmata), che vi appose anche la
data in numeri romani: MDCLXIII, 1663.
Una parola finale sul curioso materiale adoperato per la realizzazione dell’opera: come detto, si tratta
della sanguigna, antico strumento da disegno consistente in un bastoncino di ematite, minerale
ferroso dal caratteristico colorito rossastro che ricorda il sangue (da cui, per l’appunto, il toponimo
sanguigna).
9 – BORROMINI – PORTALE DI INGRESSO – PALAZZO CARPEGNA
Quando si accenna a Bernini, viene spontaneo di riflesso nominare il suo più acerrimo antagonista,
ossia Francesco Borromini.
Architetto geniale, appassionato del dinamismo parietale al punto di
utilizzare in quasi tutte le proprie opere superfici concave e convesse, esso fu però dotato di un
carattere talmente burbero e ombroso da essere spesso considerato una seconda scelta rispetto
all’estroso Bernini.
Se Borromini ha abbellito Roma con progetti architettonici decisamente innovativi, come la cupola a
spirale di Sant’Ivo alla Sapienza o l’armoniosa planimetria di San Carlo alle Quattro Fontane
(soprannominata “San Carlino” per le sue minuscole dimensioni), a livello decorativo il Borromini ha
spesso realizzato composizioni scultoree rimaste celate alla vista dei suoi contemporanei.
Basta, in tal senso, varcare il portone di Palazzo Carpegna, posto nei pressi della Fontana di Trevi e
sede odierna dell’Accademia di San Luca, per ammirare uno dei capolavori più segreti di Borromini: il
fregio scolpito al di sopra dell’accesso interno, sormontato dal terrificante volto di Medusa, posto
all’interno di una conchiglia fra due ali.
Sui lati, due cornucopie spiraliformi si rovesciano sui capitelli
delle due colonne, in una sovrabbondanza di fiori e frutti, a simboleggiare l’abbondanza e la fecondità.
Da ammirare anche il sublime festone, stracolmo di foglie di alloro e molteplici fiori, che pende dai
capitelli completando l’apparato decorativo.
10 – CANOVA – DANZA DEI FEACI – VILLA TORLONIA
L’ultimo, cronologicamente parlando, dei dieci artisti che hanno lasciato a Roma i propri capolavori
segreti è l’indiscusso maestro del Neoclassicismo, lo scultore Antonio Canova.
Canova ha abbellito chiese e musei con indiscussi esempi di maestria nella lavorazione del marmo: le tombe dei Papi Clemente XIII e XIV, nella Basilica di San Pietro ed in quella dei SS.
Apostoli, e la sensuale Paolina Borghese, esposta nell’omonima Galleria, basterebbero da soli ad esaltare l’estro e la perfezione di un artista che venne definito da suoi contemporanei “l’ultimo degli antichi, ed il primo dei moderni”.
Eppure, per quasi due secoli Roma ha nascosto un vero e proprio tesoro realizzato da Canova, che è rimasto celato fino al 1997 nei magazzini del Teatro di Villa Torlonia. Tra anonimi detriti, infatti, vennero ritrovati tre degli straordinari bassorilievi in gesso, realizzati da Antonio Canova per rivestire le pareti della sala da ballo del Casino Nobile, all’interno della Villa Torlonia.
Le tre scene sono perfettamente leggibili: Socrate che beve la Cicuta, la Morte di Priamo (ripresa
dall’Eneide di Virgilio) e la sublime Danza dei Feaci, richiamata dall’Odissea di Omero.
Soffermiamoci su quest’ultima, anche in virtù della grande passione da sempre dimostrata da Canova
per la danza, da lui più volte rappresentata anche pittoricamente: il gesso deriva da un episodio
narrato nell’ottavo canto dell’Odissea e raffigura la danza offerta dal re dei Feaci Alcinoo in onore di
Ulisse.
Antonio Canova, in questo bassorilievo, esalta il tema della grazia, con i due giovani scatenati
sulle punte nell’ebbrezza dei sinuosi movimenti: lo scopo del grande scultore, in quest’opera rimasta
celata agli occhi di molti per un tempo interminabile, fu di esaltare la danza, simbolicamente
rappresentata come l’arte per eccellenza, tramite la quale sia possibile esprimere i propri sentimenti
e la propria gioia di vivere.